L’antipsichiatria è per natura politica sovversiva rispetto al repressivo ordine sociale borghese (…) rappresenta chi è disposto a correre rischi legati a cambiare progressivamente e radicalmente il modo in cui vive (David Cooper)
La diffusione delle idee psicoanalitiche e le nuove discipline come la Filosofia Fenomenologica, la Sociologia e la Psicologia Sociale, hanno contribuito nella prima metà degli anni ’50 a far nascere una dottrina chiamata Antipsichiatria.

Il termine venne usato per la prima volta da David Cooper, che insieme a Ronald Laing e Michel Foucault, viene considerato uno dei fondatori del movimento antipsichiatrico.
La Corrente Antipsichiatrica
La corrente antipsichiatrica nacque con l’obiettivo di denunciare le lacune, i problemi teorici e gli abusi nella pratica psichiatrica dell’epoca.
Il movimento si pone, infatti, in antitesi rispetto alla modalità categoriale e oggettiva di diagnosi e trattamento dei disturbi mentali promossa dalla psichiatria classica.
Secondo l’impostazione scientifica, gli psichiatri valutano i sintomi della malattia come dati oggettivi, ovvero come “fatti” osservati empiricamente.
Attraverso questi dati si classificano oggettivamente le malattie e si stabiliscono le eventuali prognosi.
Mentre, secondo la posizione antipsichiatrica, lo psichiatra non può non partire dalla soggettività del paziente.
Questo certamente osservando i sintomi ma comprendendo al contempo che questi possono essere solamente visti dall’esterno.
Per l’antipsichiatria la psiche umana è molto più complessa e soggettiva.
In sostanza l’antipsichiatria rifiuta di “oggettivizzare” il paziente in una diagnosi.

Non tutto si riconduce ad una malattia organica
I sostenitori della dottrina antipsichiatrica non negano il disagio o la sofferenza psicologica, tantomeno l’attuazione di comportamenti illogici.
Essi asseriscono che tutto ciò non sia ascrivibile soltanto a una malattia organica, ma anche alle influenze negative che provengono dall’ambiente e dalle contraddizioni sociali.
Le cure in quel tempo, soprattutto nei manicomi, (dosi eccessive di psicofarmaci, medicinali in fase di sperimentazione, ettroshock, lobotomie e metodi costrittivi) erano considerate forme di violenza sociale.
Queste prevalentemente inflitte su persone fragili e malate, perpetrate sia dalle famiglie che dalla società per aver “rifiutato di adeguarsi al conformismo sociale”, per essere, cioè, diversi dalla “norma”.
Al contrario, l’antipsichiatria sosteneva che il trattamento del malato doveva essere effettuato attraverso interventi psicoterapeutici o politico-sociologici.
Questi miravano a suscitare in lui la presa di coscienza della propria sofferenza e collegava la prevenzione ad un rinnovamento del sistema sociale.
L’obiettivo era di tutelare i diritti del paziente e di lasciarlo libero di esprimersi nell’ambiente sociale.
Per molto tempo il trattamento dei disturbi mentali si è concentrato sul generare meccanismi che reprimessero emozioni e comportamenti. Queste erano considerate non confacenti a ciò che veniva inteso come normalità.

Antipsichiatria: La visione di Cooper
È in questa cornice che si colloca il lavoro principale dello psichiatra David Cooper, il quale si oppose a questo schema e dalla sua visione nacque l’esperimento di antipsichiatria chiamato “Villa 21”.
David Cooper, successivamente agli studi in campo psichiatrico e all’esperienza lavorativa in un ospedale psichiatrico di Londra, iniziò a mettere in discussione le teorie di E. Bleuler, principale ispiratore dei trattamenti psichiatrici negli anni ’50.
Cooper si allontanò dall’idea che le malattie mentali avessero soltanto un’origine organica.
Si concentrò, infatti, sui fattori sociali come cause scatenanti di quegli stadi di rottura con la realtà.
Secondo lo psichiatra esistevano tre forme di “pazzia”:
- La demenza: è quella che nasce dall’influenza del sistema sugli individui, come per esempio guerre o povertà, che sono realtà che possono disorganizzare il mondo interiore delle persone;
- Il viaggio interiore: si riferisce al processo di rottura con le esperienze precedenti alienate e la nuova strutturazione di un progetto di vita personale;
- La demenza sociale: corrisponde alla risposta disorganizzata ad ambienti “malati”. Questi finiscono per ammalare l’individuo, dove la pazzia diventa l’unica soluzione possibile.
Cooper era convinto che queste patologie potessero essere curate attraverso trattamenti adeguati.
Durante il periodo di lavoro presso un ospedale psichiatrico di Londra, Cooper ottenne un’unità all’interno dell’ospedale stesso.
L’esperimento, come il nome stesso della sezione dedicata, venne chiamato Villa 21.

Antipsichiatria: l’Esperimento di Villa 21
L’unità Villa 21 si proponeva di costruire una comunità terapeutica che funzionasse in modo indipendente ed autonomo. La sezione metteva a disposizione 19 posti letto e accettava ospiti giovani e adolescenti diagnosticati come schizofrenici.
Per la selezione del personale e degli infermieri, si sceglievano i medici e gli assistenti con poca esperienza all’interno di ospedali psichiatrici, poiché dovevano essere aperti alle novità e privi di pregiudizi legati ad esperienze passate.
Villa 21 promuoveva l’autonomia e l’indipendenza. I pazienti godevano di un ampio margine di libertà nel prendere le decisioni che ritenevano corrette.
Cooper permise, per esempio, agli internati della struttura di accumulare rifiuti e di relazionarsi a essi, secondo lui questo era un positivo “passaggio all’azione”.
Nell’esperimento si evitò di stabilire norme ovunque fosse possibile applicare flessibilità.
Si cercò, inoltre, di dare particolare importanza alle dinamiche di gruppo. In questo caso il ruolo degli accompagnatori e dei professionisti della salute era quello di suggerire e facilitare le dinamiche stesse.

Pratiche e tempi di recupero nell’Esperimento di Villa 21
Erano i pazienti che decidevano le attività da svolgere quotidianamente. Per agevolarli vennero creati dei sottogruppi di lavoro.
All’inizio dell’esperimento ci fu un certo caos, ma col tempo i pazienti riuscirono ad organizzarsi in modo stabile e funzionale, arrivando a migliorare le proprie condizioni di salute.
L’esperimento avvenne tra il 1962 e il 1966 e coinvolse in totale 42 pazienti. Ciascuno di essi venne dimesso prima di un anno di ricovero e soltanto il 17% dovette tornare per un nuovo ricovero.
Nonostante i risultati dell’esperimento Villa 21 fossero incoraggianti, fu sospeso. Continua però a rappresentare ancora oggi un modello di lettura diverso della psichiatria.
Dottoressa Veronica Caroccia
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