Criminologia e Sociologia

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Un criminale è una persona con istinti predatori che non ha il capitale sufficiente per fondare una società. (Howard Scott)

Le teorie sociologiche rendono conto delle molteplici ragioni legate all’ambiente, alle interazioni tra consociati, alle scelte che favoriscono condotte criminose ma non sono in grado di spiegare la variabilità del comportamento individuale dinanzi ai fattori socio ambientali.

Tale variabilità è da ricondurre ad un ambito differente, il quale studia le molteplici caratteristiche psicologiche e biologiche dell’individuo.

Oggetto della psicologia criminale, organo vitale e dinamico della criminologia, sono tra le altre quelle componenti di vulnerabilità individuale, indispensabili per comprendere l’altra faccia del crimine, che differiscono in ogni soggetto e forniscono difformi risposte a fattori criminogenetici insiti nella società.

Entra prepotentemente all’inizio del novecento la necessità, sotto il monumentale impulso freudiano, di spiegare il rapporto uomo-criminalità sotto in punto di vista psicologico: diviene necessario capacitarsi di tutti quei fattori psicologici, biologici, propri di ogni persona che rendono conto della propensione a comportarsi secondo un disegno deviante o conforme a normative e moralità imperanti, a parità di condizionamenti sociali.

Uomo come uomo e non uomo come ambiente sociale, due approcci essenziali al perseguimento della ragione criminologica.

A parità di ambito sociale mai si verifica che tutti si tramutino in criminali pur se immersi in una società deviante o disorganizzata: nel medesimo momento storico o quadro sociologico solo una parte degli uomini delinque e in costoro vanno ricercate le caratteristiche psichiche che hanno fatto questa differenza.

Il campo di indagine si vedrà risucchiato nell’analisi del temperamento, la reattività, il carattere, l’intelligenza e i valori etici dell’individuo.

Alle valutazioni relative alla criminogenesi, ossia l’origine di un comportamento criminale, concorre un approccio definito “naturalistico”, fautore di legami tra criminalità e cause della stessa legati fattori quali gli istinti, l’ereditarietà e le predisposizioni all’aggressività patrimonio delle scienze biologiche e mediche.

Parrebbe quasi un recupero delle vetuste teorie lombrosiane ma ciò non deve tratte in inganno: è da considerarsi improponibile qualsiasi teoria riguardante una fantascientifica predisposizione innata al delitto, già peraltro chiarita con le ricerche fallimentari eseguite su un fantomatico gene XYY o gene 47. Ciò che viene affrontato in criminologia e che i questa sede affrontiamo con un accenno, sono le teorie della predisposizione. Con “predisposizione” ci si appropria di un termine medico che indica la suscettibilità ad ammalarsi senza però cadere nel rischio di concepire la delinquenza come una malattia.

Quest’ultima appartiene all’universo biologico, mentre il crimine a quello giuridico: possono riferirsi alla predisposizione biologica solo certe caratteristiche psichiche o strutture di personalità che possono facilitare condotte delittuose senza che esista un rapporto diretto o nesso di causalità assoluto.

Con palese evidenza anche questo è il caso delle già nominate componenti di vulnerabilità personale, fondamentali anche in ambito psichiatrico: meditare sulla criminologia mi trascina spesso in una partita a tetris, nella quale vari blocchi si cementano uno sull’altro nonostante abbiano colore e forma diversa per formare un muro perfetto, che nel nostro caso può riferirsi a molteplici teorie per un’unica risposta.

Rileva qui concentrarsi sul grossolano errore di immaginare i delinquenti come sicuramente portatori di un qualsiasi disturbo mentale.

“Per aver fatto una cosa del genere deve essere matto”: no, nella stragrande maggioranza dei casi il criminale è perfettamente in grado di intendere e volere; delinquere è una scelta, spesso valutata con margini di profitto e rischi. Anche in caso di persistenza di un vizio di mente la reazione dei singoli è differente e possiamo ricopiare qua il contenuto scritto poco sopra: così come in un contesto sociale deviante non tutti delinquono, così anche coloro i quali sono affetti dalla medesima patologia mentale, la schizofrenia ad esempio, non tendono ad incedere verso comportamenti delinquenziali o violenti.

Fondamentale sarà quindi il rapporto tra imputabilità e patologia mentale, capacità di intendere e volere e colpevolezza.

Scritto ciò mi avvio alla conclusione non prima di aver ricordato non un pensiero ma due, di due grandissimi autori e ricercatori il cui apporto alla criminologia fu fondamentale: il primo appartiene ad Emile Durkheim il quale concepisce il delitto come qualcosa che “rappresentava qualunque sistema o fenomeno che fosse generale in tutte le società di un tipo particolare, a un particolare stadio del loro sviluppo.

Un fenomeno di tali caratteristiche doveva essere considerato come scientificamente ‘normale’: la normalità era uno stato di fatto, non un giudizio morale o filosofico; il fatto sociale non era soltanto un’idea soggettiva: era una cosa esistente di per sè, una parte inevitabile di un particolare tipo di una struttura sociale” (Durkheim, 1987).

Il secondo appartiene a uno dei più discussi medici, scienziati e ricercatori che la storia di questa disciplina possa presentare, Cesare Lombroso, in una delle sue infondate ma a tratti illuminanti dichiarazioni :

“Puossi dire che siano altrettanto pericolose ed assurde le proposte dei manicomi criminali, del carcere per l’incorreggibile, della multa o della pena corporale sostituita alle prime detenzioni; della legge sul divorzio, sul lavoro dei fanciulli, sull’alcool, per premunire gli stupri e le ferite? O L’obbligo imposto al reo del risarcimento dei danni inferti, in ragione delle proprie ricchezze? E chi può negare che nei processi per pederastia, per veleno, per assassinio, ove tanti indizi vanno mancando, l’introduzione dei criteri antropologici può giovare molto di più di una incertissima nota anatomica o di quelle reazioni chimiche che ogni anno vanno rinnovando o demolendo?”

(Cesare Lombroso, “L’uomo delinquente” 1880).

Mattia Curti, Criminologo