Etnografia e Antropologia: criteri e metodi della ricerca sul campo

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L’etnografia è la scienza che studia le tradizioni e i costumi di un popolo, è letteralmente “la descrizione del popolo”, dal greco: éthnos “popolo” e grapho “scrivo”. Quando si parla di ricerca etnografica la si deve considerare sempre in coppia. Si parla infatti di etnografia e antropologia o etnografia e sociologia.

Vediamo insieme la prima delle due.

Etnografia e antropologia

Secondo il Dizionario di Antropologia, curato da Ugo Fabietti e Francesco Remotti, per la casa editrice Zanichelli, per etnografia “si riferisce sia all’attività di ricerca condotta mediante prolungati periodi di permanenza a diretto contatto con l’oggetto di studio, sia alla produzione testuale tipica dell’antropologia” e prosegue “l’etnografia in quanto ricerca sul terreno consiste nello studio di una società o di una cultura e nella restituzione testuale di tale esperienza”.

L’etnografia quindi è un insieme di pratiche che permettono la registrazione dei dati e delle informazioni da parte degli studiosi.

Quando si parla di etnografia ci si riferisce alle tecniche di ricerca durante il periodo di campo in cui il ricercatore si trasferisce presso una comunità da studiare. Alcune delle tecniche utilizzate sono “l’intervista” e l’”osservazione partecipante”, volte a recuperare la maggior quantità di dati che una volta interpretati e studiati, restituiscono un corpus documentario, cioè una analisi del contesto indagato.

La ricerca etnografica sul campo

La ricerca sul campo si struttura e trova la sua forza nella dimensione conoscitiva della comunità e si qualifica nell’incontro umano. In poche parole, essa trova il suo nucleo di significato nella relazione e nell’esperienza che fa il ricercatore dell’alterità, dell’altro.

La ricerca etnografica è costituita da una serie di fasi, che hanno come obiettivo la raccolta dei dati. Ciascun momento è interconnesso con tutti gli altri e una volta elaborati danno vita al documento etnografico.

Le caratteristiche personali legate alla capacità di relazione e di interazione che si posseggono danno un maggiore impronta, fondamentale per instaurare un rapporto di fiducia e di riconoscibilità. Detto questo, quando si parla di etnografia e antropologia, si deve necessariamente partire da una delle pratiche fondanti della ricerca etnografica stessa: l’osservazione partecipante.

Etnografia e antropologia: l’osservazione partecipante

L’osservazione partecipante è una pratica che permette di osservare dall’interno il contesto preso in esame, situa all’interno della scena indagata il ricercatore. La ricerca sul terreno è un’osservazione reciproca che può durare settimane, mesi o anni.

Questo metodo permette al ricercatore di osservare l’interazione reciproca all’interno del sistema sociale, permettendogli di osservare il funzionamento dell’interazione. L’effetto sul ricercatore è un pieno coinvolgimento e identificazione, per questo motivo si dice che ha “un’azione riflessiva”.

Difatti, l’osservazione partecipante permette di registrare i dati necessari per la ricerca e per poter studiare i sistemi sociali. La permanenza nel campo può essere anche molto prolungata e può anche affaticare il ricercatore, come ricorda Carla Bianco.

Il lavoro sul campo, oltre a porre il ricercatore di fronte alla interconnessione fra i livelli pratici e quelli teorici della ricerca, lo mette anche di fronte a modi di esistere a volte radicalmente diversi da quelli della sua società” (Dall’evento al documento. Orientamenti etnografici, CISU editore).

ricerca sul campo: Le indagini preliminari

La ricerca sul campo è un lavoro di ricerca che parte da indagini preliminari che si svolgono prima di recarsi sul terreno di ricerca, quindi prima di incontrare la comunità e che ci permettono di avere una preparazione adeguata all’incontro con l’altro.

È consigliabile reperire le fonti bibliografiche, la letteratura scientifica e locale, ma anche mappe, cartine geografiche e storiche, guide turistiche, atti dei convegni e fonti archeologiche, registrazioni audio e video, archivi fotografici e qualsiasi documento che possa essere utile.

L’antropologo si avvale di una molteplicità di fonti

Le fonti possono essere orali, documentali, cartografiche, fotografiche, di archivio, iconografiche, letterarie, epigrafiche, indirizzando la ricerca verso diverse prospettive. È interessante consultare le emeroteche, cioè gli archivi delle riviste locali che nei piccoli centri sono curati da persone che hanno a cuore le memorie del luogo.

Potrebbe accadere che le risorse documentali non siano sufficienti o siano scarse. Perché non sono state fatte delle ricerche o non sono state pubblicate o siete i primi ad occuparvene.

È opportuno informarsi sui centri culturali, sulle biblioteche e sui centri di documentazione locali o più vicini. Per esempio, può essere importante richiedere di consultare i materiali dell’archivio storico, aiutati da un’archivista che vi potrà dare informazioni che potrebbero sfuggirvi. Se si ha tempo a disposizione si può allargare la ricerca contattando associazioni ambientaliste, che si occupano di ecologia e frequentare le librerie locali.

Etnografia e antropologia: l’accesso sul campo

L’accesso al campo di ricerca, il momento in cui entri nello spazio dell’altro e della comunità, determina la raccolta dei dati e degli incontri sociali.

Il momento più delicato è quello che si definisce come il “primo impatto”. Un momento critico, che può inciampare sul malinteso o sulle false aspettative dell’altro.

Grazie alla mediazione interna di quello che nel campo di ricerca sono i preziosi alleati, gli informatori o i collaboratori, certi malintesi possono essere mitigati. Gli informatori sono delle guide speciali, dei colleghi a tutti gli effetti che ti conducono all’interno della scena e che individuano momenti importanti, direi imperdibili da documentare.

Un fondamentale aiuto all’antropologo: gli informatori

Chi sono gli informatori? Sono delle persone che per competenza o per storia personale sono degli “esperti del territorio” o persone che si trovano in una posizione privilegiata rispetto ad altri, per aver compiuto studi specifici o dedicato la propria vita a determinati interessi. Sono degli incontri eccezionali, rari e allo stesso tempo nutrienti.

La scelta degli informatori, talvolta, è quasi obbligata. La buona riuscita di una etnografia dipende anche dal grado di serenità con cui lavori.

Etnografia e antropologia: l’organizzazione sistematica delle interviste

L’intervista concordata od occasionale è un momento relazionale intenso. Nella ricostruzione storica per riportare alla memoria episodi molto antichi si possono analizzare oggetti di famiglia, storie di vita o ricostruire eventi pubblici.

L’osservazione del comportamento verbale dei membri di una comunità, e la raccolta delle interviste in situazioni spontanee, sono momenti interessanti da analizzare perché c’è sempre una differenza tra quello che le persone dicono e quello che le persone effettivamente fanno.

Solo un’osservazione ripetuta e sistematica di determinati comportamenti o eventi linguistici possono essere utili per migliorare la comprensione dell’uso del linguaggio e della sua funzione sociale.

La realizzazione delle interviste può essere supportata dal registratore digitale. Le tracce audio poi andranno organizzate in maniera sistematica creando un database. La creazione di un archivio di tutti gli incontri che tenga traccia delle informazioni raccolte vi potrà aiutare una volta tornati a casa nella stesura dell’etnografia.

La base per giungere ad avere informazioni è partecipare agli scambi informali nel quotidiano, assistendo ai rituali ed intervistando.

Un piccolo cenno alla mia esperienza sul campo

Nella mia esperienza di campo, nei piccoli paesini d’Italia, le informazioni che ho recuperato, seppur nella loro parzialità, non sono solo quelle scambiate con me. Sono soprattutto quelle osservate in specifiche occasioni comunicative. Tra queste sono comprese ovviamente anche quelle generate dal mio intervento.

La prima fonte di informazione è sicuramente la lingua, come codice costituito da un repertorio di simboli che rimandano a significati e in secondo luogo l’osservazione dell’agire sociale secondo modelli culturali particolari.

Le fonti orali, spesso private, costituiscono quella che viene chiamata Oral History.

Etnografia e antropologia: che cos’è l’Oral History e quanto è importante agire dialogicamente

Il concetto di fonte orale si distingue da quello di tradizione orale.

La tradizione orale si occupa di forme verbali formalizzate, tramandate, condivise. Le fonti orali dello storico, invece, sono narrazioni individuali, non formalizzate, dialogiche (anche se possono inglobare elementi delle forme tradizionali).

Le fonti orali, come tutte le altre, vanno sottoposte ai normali procedimenti della critica storiografica, per accertarne l’attendibilità e l’utilizzabilità, né più né meno dei documenti di archivio.

La differenza tra approccio tradizionale e intervista dialogica

“Nell’ambito della storia orale, ciò ha voluto dire soprattutto che l’intervista non è stata trattata tanto più come documento sugli eventi del passato quanto come testo costruito dialogicamente. Insoddisfatti dell’approccio tradizionale all’intervista storica orale e della scarsa consapevolezza della sua complessità, gli storici orali hanno aperto una discussione sulla specificità della propria pratica.

Pensare all’intervista come testo creato in modo dialogico significava prestare attenzione alla sua formazione nell’incontro fra due persone, alla sua forma orale, al rapporto cruciale fra i suoi co-autori (l’intervistato e l’intervistatore) e alle strutture linguistiche e cognitive che definiscono questo genere di discorso. Nell’intervista non si riconosceva più una cronaca, ma una narrazione, un intreccio costruito per illuminare i processi di cambiamento nel tempo, una costruzione fondata in modo specifico sulla memoria.

Ma l’attenzione alla memoria non riguardava più tanto la sua accuratezza, bensì il modo in cui la memoria era chiamata in gioco per creare un “passato utilizzabile” attraverso l’interazione dei due soggetti coinvolti. In questo processo creativo, il bagaglio culturale e le pratiche di cui ciascuno era portatore assumevano un ruolo di primo piano. Poiché l’intervista era creata qui e ora in un dialogo che aveva per oggetto l’allora e l’altrove, il passato e il presente erano talmente intrecciati nel dialogo che parlare degli eventi e dei problemi del passato era chiaramente un modo per evocare quelli del presente. L’intervista non ci diceva solo che cosa fosse accaduto in passato, ma anche in che modo per evocare quelli del presente

(Alessandro Portelli, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Donzelli Editore, Roma, 2017. p. XI.)

Etnografia e antropologia: le fonti orali

Le fonti orali sono quelle raccolte per esempio dallo scrittore Carmine Abate in Vivere per addizione e altri viaggi, Mondadori.

“Da quel giorno cominciai a girare per tutti i vicoli del paese, rapsodie, canti, aneddoti, proverbi, preghiere, fiabe. E piano piano ricostruivo la storia mitica nel nostro paese, fondato alla fine del quattrocento dai profughi albanesi scappati dalla loro terra invasa dai turchi”. “Il registratore non metteva in soggezione i miei interlocutori. Aveva il microfono incorporato, registrava in silenzio, con discrezione. Lo accendevo e lo lasciavo in un angolo del tavolo, mentre gli anziani contadini che avevano occupato le terre raccontavano le vecchie zonje cantavano con gusto. Lo memorizzavo assieme al mio registratore, concentrato come raramente mi capitava a scuola dove non si parlava mai della nostra storia, fino a quando il clic automatico mi faceva sobbalzare: la cassetta era piena, bisognava girarla sul lato B o cambiarla.”

Un equilibrato concorso fra tecnologia, ascolto e scrittura quello che avviene con l’uso del registratore, una soluzione pratica per trascrivere a posteriori e rappresentare sulla pagina il resoconto dell’intervista da analizzare.

“Il registratore restituiva il canto senza il sottofondo del vicolo, senza il ronzio delle mosche, né il lamento delle ultime cicale moribonde. “Moi e bukura more, si të lé u më ngë të pé…”. Era una voce netta che sembrava arrivare da un mondo lontano, da un altro tempo, più silenzioso del nostro e soprattutto più quieto più soffice, fresco come un fiocco di neve”. 

Etnografia e antropologia: il diario di campo

La redazione delle note e del diario di campo, è l’atto con cui si trascrivono appunti durante le interviste, si mettono a fuoco temi che emergono o si appuntano riflessioni che verranno sviluppate in seguito. Oltre ad avere un aspetto compilatorio sono delle mappe, che riassumono la direzione che sta prendendo la ricerca o si annotano direzioni che non vanno prese. Hanno un carattere anche autobiografico, perché la pratica sul campo, l’esperienza diretta e il confronto con l’altro hanno come abbiamo detto un’azione riflessiva.

Le note di campo contribuiscono ad organizzare il materiale e la raccolta dei dati durante il processo di conoscenza.

I dati recuperati sono selezionati in base alla loro rappresentatività e sono monitorati e processati attraverso fonti bibliografiche e di archivio.

ETNOGRAFIA E ANTROPOLOGIA: UN GRANDE AIUTO DALLA FOTOGRAFIA

La fotografia ci permette di creare dei reperti visivi, legati agli eventi o a dei momenti che, se non fissati andrebbero persi. Attraverso l’uso della macchina fotografica è possibile creare un portfolio di immagini per tenere traccia degli interventi svolti. La fotografia ci restituisce a tutti gli effetti un dato. Questo dato può essere lo spazio pubblico o lo spazio privato in cui si svolgono le relazioni primarie, i riti quotidiani e gli spazi architettonici.

La registrazione fotografica è una fonte ricca di informazioni e significati che ha bisogno di elaborazioni teoriche e tecnologiche. Il reportage fotografico da l’idea del percorso metodologico messo in atto, dalle prime ricognizioni, alle interviste, alla vita di campo.

Cos’è dunque l’etnografia?

L’etnografia è il resoconto dell’esperienza sul campo che da l’accesso a innumerevoli incontri e occasioni per trasformare il flusso interrotto della vita quotidiana in una serie di documenti legati tra loro in maniera complessa.

L’etnografia è il resoconto finale, il documento, che viene consegnato a chi ha commissionato un lavoro o una ricerca specifica.

È anche definito il corpus documentario.

Racconta o inquadra un determinato periodo storico, lungo o breve e dà uno sguardo su ciò che emerge nel frangente in cui si è svolta l’osservazione. L’etnografia potrebbe rappresentare una cronaca in presa diretta, un modo a posteriori per viaggiare nel tempo per raccontare un’ecologia delle pratiche quotidiane, ed essendo situata in un determinato periodo ha una sua proprietà temporale.

Uno dei migliori manuali di etnografia che rileggo con piacere è il testo di Carla Bianco, Dall’evento al documento. Orientamenti etnografici, CISU editore.

Conclusioni all’articolo e introduzione a questa nuova rubrica

Nel corso di questa rubrica approfondiremo i vari aspetti delle indagini conoscitive che contraddistinguono il lavoro dell’antropologo sul campo.

Dall’accesso al campo di ricerca, alla vita domestica e la gestione del quotidiano, le fasi di preparazione al campo, al piano di lavoro, alla stesura delle note di campo alla redazione del diario, la scelta dei metodi e delle tecniche, le competenze necessarie, fino alla stesura del documento etnografico.

Approfondiremo inoltre l’uso del registratore digitale, come creare corpus fotografico e video in grado di restituire a posteriori un determinato contesto indagato. Infine, come arrivare a una pubblicazione editoriale efficace.

Anna Rizzo, Antropologa

Ti parlo un secondo del mio libro

Il 15 giugno è uscito il mio libro I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, è un viaggio nei piccoli borghi delle aree interne d’Italia tra isolamento e spopolamento, sfruttamento turistico e comunità che, nonostante tutto, continuano a resistere.

Esistono luoghi in cui non sembra vivere nessuno. Strade solitarie su cui muovono i passi sparuti camminatori, case centenarie in cui i silenzi sono rotti solo dal ronzio di qualche televisione lontana. Antichi muretti a secco su cui camminano gatti randagi e lucertole più di quanto vi si appoggino mani e schiene umane, vecchie stufe a gas a riscaldare ampie stanze semivuote.

Sebbene ci possa sembrare uno scenario desolato, queste immagini raccontano in verità una storia di resistenza. Una resistenza di tredici milioni di persone che continuano ancora oggi ad abitare i borghi e i paesini d’Italia che, stagione dopo stagione, si svuotano perdendo servizi e attività fondamentali.

In questo libro affronto le problematiche legate allo spopolamento e allo stato di abbandono di edifici e infrastrutture. Interrogo inoltre i cittadini sui loro bisogni, sulle loro paure e sulle strategie di adattamento che hanno individuato. Infine ragiono attorno alle motivazioni di chi è rimasto e di chi se n’è andato.

I paesi invisibili è, assieme, una panoramica nitida delle piccole comunità d’Italia e un manifesto. Una ricognizione fuor di retorica della situazione in cui versano attualmente i nostri borghi e degli interventi necessari per evitare che, tra sfruttamento turistico e incuria dello Stato, un pezzo importante della nostra identità collettiva finisca cancellato per sempre.

Perché, è vero, un paese ci vuole anche solo per il «gusto di andarsene via». Ma un paese ci vuole soprattutto per la bellezza di ritornarvi.

Suggerimenti di lettura rispetto al mio articolo su etnografia e antropologia

Se ti è piaciuto questo articolo ti suggerisco di dare un’occhiata alla mia rubrica antropologia e a rimanere aggiornato sui prossimi articoli.

Se intanto vuoi farti in un tuffo in questo blog multidisciplinare ti suggerisco la rubrica sociologia tenuta dal Dott. Niccolò Di Paolo