Henri Cartier-Bresson. frustrato dagli scarsi risultati come pittore tra i surrealisti negli anni 20, si avvicinò al mondo della fotografia solo fra il 1932 ed il 1935 come “art photographer” a New York.
Ma facciamo prima un passo indietro.

Henri Cartier-Bresson: l’occhio del secolo
Quando si pensa all’iconografia di un determinato periodo storico, vengono sempre in mente grandi artisti, che essi dipingano, creino magnifiche statue, o, in questo caso, scattino grandi fotografie.
Henri Cartier-Bresson è, indiscutibilmente, il fotografo più iconico del ‘900, tanto da essersi guadagnato l’appellativo di “occhio del secolo”.

Nonostante l’iconografia dietro Cartier-Bresson, e l’indiscutibile qualità del suo lavoro dietro l’obbiettivo, la fotografia non fu il suo primo amore, ma bensì la pittura.
La storia di Henri Cartier-Bresson
Nato nel 1908 in un paesino vicino a Parigi, negli anni ‘20 provò ad intraprendere la carriera come pittore, avvicinandosi al movimento surrealista. Frustrato dagli scarsi risultati ottenuti come pittore, si avvicinò al mondo della fotografia, fra il 1932 ed il 1935 si affermò come “art photographer” a New York, grazie alla sua tecnica di foto surrealismo. Rientrato a Parigi intraprese la carriera di fotogiornalista.

Durante la seconda guerra mondiale entrò a far parte della resisitenza francese. Catturato dai nazisti, riusci’ a scappare ed arrivare in tempo per documentare la liberazione di Parigi nel 1944.
Nel 1947 fu tra i fondatori della storica agenzia Magnum, e, nel 1953, pubblicò “Il momento decisivo”, considerato una vera e propria “Bibbia” per tutti i fotografi di reportage.
Fu attivo come fotogiornalista fino alla fine deglia anni ‘70.
La ricerca del momento decisivo
Ciò che ha reso Cartier-Bresson così iconico, è la costante ricerca del momento decisivo, cioè il momento in cui un’azione è al suo culmine. La definizione che il fotografo stesso diede è:
“il fotografo deve appostarsi, spiare la preda, prevederne i movimenti…E quando è alla sua portata, rannicchiarsi per balzare addosso”.
La metafora del “tiro con l’arco” non faceva ovviamente riferimento all’essere un paparazzo. Negli anni trenta neanche esisteva ancora tale figura. Intendeva piuttosto un nuovo modo di approcciarsi alla fotografia. Un approccio più libero e istintivo. Bresson non si è mai preoccupato troppo del mezzo fotografico, per lui la macchina doveva essere un “taccuino per prendere appunti”, un prolungamento dell’occhio.
Questa è una delle foto più famose di Bresson. Ma è figlia del “caso”?
Un uomo fa un salto per superare una pozza d’acqua in quello che sembra essere un cantiere. L’orologio della stazione fissa il tempo, l’attimo. Sappiamo che Bresson fece molti scatti, ma i provini non furono mai mostrati.
Ciò che è paradossale, è che lo stesso Bresson afferma con candore che questo scatto è frutto della “casualità”. O meglio, di una condizione fortuita a cui il fotografo deve in qualche modo “connettersi”. Il soggetto balzante è stato ripreso attraverso un foro uno spazio da cui Bresson non poteva vedere attraverso il mirino. C’era solo lo spazio per infilare l’obiettivo della sua Leica.

Fortuna quindi, si ma cercata. Il gioco è entrare in connessione con il momento, con il presente. Chiunque fotografi davvero riesce a capire cosa il grande autore intendesse dire.
A parte questo la foto è meravigliosa. Il soggetto sembra un acrobata nell’arena di un circo. Nelle foto di Bresson i dettagli e le forme compongono un quadro perfetto. Guardate il manifesto in alto a sinistra.

Jacopo Canè, fotografo professionista
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