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Criminologia-->
by Federica SaracinoGennaio 18, 20235:01 pmMaggio 21, 2023

La vita in carcere: cosa si cela dietro le sue mura? Cosa si prova a lavorare in ambito detentivo?

Tempo di lettura: 5'
letto 930 volte

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La vita in carcere può essere un’esperienza estremamente difficile per gli individui internati. Ma cosa si cela davvero tra le mura di cinta? O semplicemente: chi?

la vita in carcere: il primo passo

Entrare in carcere… Potrebbe bastare già solo questo incipit per dare sfogo ad una serie di interpretazioni, sensazioni, immaginare odori, udire rumori e pensare a quei passi, lunghi passi, che ti accompagnano verso un mondo sconosciuto.

Non si realizza solo trovandosi davanti una maestosa struttura. 

Si realizza quando varchi la prima soglia, le mura… la prima timbratura del cartellino, la seconda… il primo portone che, con il suo cigolio da scarsa manutenzione e peso non indifferente, si chiude, poi il secondo ed ancora il terzo…fino a quei corridoi che paiono infiniti. 

Quanti passi, pensieri, quante lacrime, quante cose non dette, quanta sofferenza e disagio hanno mai potuto sorreggere quei pavimenti che, con le loro diramazioni, ti accompagnano verso i vari reparti?

Quante colpe e sensi di colpa, quante ingiustizie e quante lacerazioni hanno mai potuto contenere le mura che, nonostante la serie di finestre sbarrate, risuonano di urla disperate?

Se ti fermi a pensare, quella corrente che si crea delle volte, pare voglia cambiare aria per far spazio a nuovi ingressi, nuovi inizi. Per quanto le forme di un corridoio siano lineari, creano comunque una ciclicità che pare non aver né capo né coda.

LAvorare in carcere senza cadere in errore


Lavorare in ambito detentivo, richiede passione, prontezza ad affrontare situazioni “fuori dal comune” e, sicuramente, non è un ambito nel quale chiunque è in grado di operare.

Entrare in rapporto profondo con un’altra persona, implica stabilire una situazione di intimità. Vivere un contatto molto ravvicinato può, però, anche generare ansia, in quanto rende vulnerabili ed esposti, per cui, molti, temono questi rapporti; pur volendo fortemente connettersi agli altri, si ostinano a restare isolati.

C’è un motivo che spiega questo atteggiamento: di solito, nei rapporti con gli altri, si tende a riproporre modi di essere e di sentire sperimentati in precedenti relazioni e, spesso, le emozioni suscitate dalle persone che si incontrano, possono essere così intense da provocare reazioni di aggressività o di spavento.

Ciò sta a significare che le conseguenze di eventi passati sono ancora profondamente attive.

Da tutto ciò si deduce che non è importante affannarsi a risolvere le difficoltà degli altri, perché così facendo, sembra che la soluzione del problema sia più importante della relazione, mentre ascoltare attivamente i sentimenti, i contenuti e i significati dei nostri interlocutori, trasmette loro l’essere importanti come persone e si favorisce lo sviluppo dell’intimità.

Il duro lavoro sta nell’integrare, grazie all’esperienza e alla formazione avuta, le proprie emozioni con quelle che “rimandiamo” alle persone detenute, in quanto non è semplice dover essere empatici ma allo stesso tempo capacitarsi del fatto che non è possibile farsi trasportar troppo. Andrebbe a finire che ai loro occhi, il nostro progetto riabilitativo, risulti compassionevole.

la vita in carcere: si tratta di uomini prima che detenuti

Di che occhi si tratta?

Di occhi di persone che, il più delle volte, non vengono più riconosciute come tali; diventano magicamente un numero, un peso, un reato che cammina.

Il duro lavoro sta anche in questo, ovvero nell’arginare il più possibile la deumanizzazione: quel processo che porta a percepire l’altro come “non essere” e consiste nello spogliarlo, togliergli un’identità mandando in dissolvenza tutto ciò che, magari a fatica, si era costruito fino a quel momento.

figure professionali in carcere: il volontariato e il criminologo

Questa lotta può esser affrontata, tra le varie disposizioni e manovre, anche attraverso un ponte che si crea tra dentro e fuori.

Infatti, tra le varie figure che operano in carcere, c’è quella del volontario. In Italia il volontariato penitenziario è di tre tipi:

  • volontariato di singoli (la forma più tradizionale ma oggi la meno diffusa);
  • volontariato di singole associazioni;  
  • volontariato di gruppi di associazioni coordinate da una più ampia organizzazione.

Il volontario, conoscendo le più moderne tecniche di mediazione, mira alla riduzione dei conflitti attraverso un paziente e costante lavoro di persuasione interna. Il suo ruolo non è secondario a nessun altro all’interno del corpo di riferimento, di cui fa parte anche la figura del criminologo. https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_8_6.page

Lavorando in équipe, il criminologo mira a stimolare le capacità di prevenzione, di interpretazione e di gestione dei fenomeni criminosi, mediante un coordinamento scientifico per stilare progetti in ambito sociale, per soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. In che modo? Attraverso colloqui clinici individuali di supporto, gruppi di discussione o di attività, stesura di relazioni con giudizio di idoneità (o meno) di poter fruire di misure alternative e/o opportunità di avere licenze premio.

Diversi sono i temi citati in queste righe pertanto, gli spunti per le prossime pubblicazioni, partiranno proprio da quanto emerso fino ad ora.

Dott.ssa Federica Saracino

SUGGERIMENTI DI LETTURA IN MERITO ALL’ARTICOLO DELLA VITA IN CARCERE

Se ti è piaciuto l’articolo, ti suggerisco di dare un’occhiata alla Rubrica Criminologia, tenuta da me e dal dottor criminologo Mattia Curti.

About Federica Saracino

Laureata in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica e abilitata alla professione.
Specializzata in Scienze Criminologiche per l'Investigazione e la Sicurezza.
Esperta in Psicologia Investigativa, Criminal Profiling, Psicologia Giuridica, Psicopatologia e Psicodiagnostica Forense.

Mostra tutti gli articoli di Federica Saracino

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3Comments

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  1. 1
    ANTONELLA CAVALLO on Marzo 5, 2023 at 2:22 pm
    Rispondi

    Entrare in carcere da persona libera, da donna libera, richiede sopra ogni cosa abbandonare giudizio e pregiudizio nella consapevolezza che in un’eventualità non del tutto remota ci si potrebbe trovare catapultati nella stessa realtà detentiva privati della propria identità, col terrore di essere dimenticati, cancellati dagli affetti lasciati fuori da quelle mura, da quei cancelli, da quella porzione di cielo che rimanda a una libertà violata… Ci vuole coraggio e determinazione, empatia, ma soprattutto capacità di ascolto. Grazie Federica per il tuo contributo e la grande professionalità. Antonella

  2. 2
    Federica Saracino on Marzo 5, 2023 at 11:18 pm
    Rispondi

    Non potevo che ritrovare dedizione nelle tue parole.
    Grazie mille Antonella, sei preziosa.

  3. 3
    Morire in carcere: quando il suicidio sembra essere l'unica via d'uscita - prevenzione e modalità di intervento - gnōthi seautón on Marzo 25, 2023 at 9:52 am
    Rispondi

    […] risultare strano che lo scorso articolo avesse come titolo “La vita in carcere” e ritrovarsi, a distanza di poco tempo, a leggere il suo opposto. Ciò che c’è nel mezzo, […]

Rispondi Annulla risposta

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