«Ma dimmi, cosa fai dallo psicoterapeuta?»
«Beh, vado lì e… parlo»
«E basta?»
Un discorso già sentito, vero? Capita quando si chiacchiera al bar d’imbattersi in uno scambio simile.
Un po’ riduttivo forse… anzi decisamente. Ebbene, per chi fosse interessato al perché del linguaggio in psicoterapia, per tutti coloro che non vogliono solo fermarsi al pregiudizio e allo stereotipo, per chi desideri sapere il motivo dell’importanza delle parole all’interno del processo di cura, ecco un articolo che tenta di chiarirne le funzioni per la cura della psiche.

Il linguaggio e l’uomo, un legame che fa la differenza!
Il linguaggio è una caratteristica specie-specifica dell’uomo. Significa che solo l’uomo è capace di parlare e di utilizzare la parola. Anche gli animali sanno comunicare, utilizzando gesti, suoni o vibrazioni e tuttavia solo l’essere umano può servirsi del linguaggio.
Il linguaggio ha una funzione informativa e la parola cerca di rendere noto il mondo che abitiamo e le nostre intenzioni psichiche. Questo non è un concetto semplice, ma tuttavia è fondamentale coglierlo.

La praticità delle parole
Partiamo dal fatto che parlare ha un’enorme utilità: se così non fosse non vi sarebbe stato motivo per la natura di perfezionare e mantenere questo gadget! Proprio per tale motivo le parole hanno un fine pratico. Non ci interesserebbe dare un’etichetta linguistica al martello, se non a partire dal suo utilizzo!
Fare esperienza di un oggetto, non significa saperne dare la definizione precisa o capire di che materia sia costituito, ma nell’incontro pratico con esso, scoprendone la funzione che ha all’interno di un modo di cui si fa parte (Costa, 2006).

Il problema dell’interpretazione: quando le parole ci chiudono le porte
Se le premesse sono corrette, ovvero che il linguaggio è il vocabolario del nostro agire, allora lo è anche dei nostri limiti. Ne è un esempio l’interpretazione.
Ogni essere umano, appena nato, trova già un’interpretazione stabilita delle cose. Ad esempio, ad ogni bambino verranno insegnati i concetti di morale o giustizia, le leggi scientifiche o i modi di esprimere la propria sessualità.
L’interpretazione del mondo diventa non solo l’apertura all’atto, ma ne determina al contempo il nostro campo d’azione.
l’esperienza alla base dell’interpretazione
Ma interpretare non significa comprendere. L’atto interpretativo del linguaggio trae quindi le sue origini dall’esperienza, ma poi se ne discosta a favore di un atto che impedisce la comprensione del mondo e ne preclude le possibilità di azione e a discapito di una vera progettualità futura. Senza un’esperienza identitaria la storia non conosce un seguito… Ecco che sopraggiunge allora lo stallo. Tutto si fa più meccanico, lento, complesso. A volte s’inceppa, talvolta si ferma.
Questo divario, tra ciò che viviamo e ciò che pensiamo sia giusto o nella norma, tra quello che riteniamo essere corretto o sensato e ciò che la vita ci pone davanti, spesso genera confusione, dubbio e – talvolta – scivola nella psicopatologia.

Dalle parole ai fatti: quando il linguaggio diventa un ponte verso il futuro
Durante la terapia accade spesso che il paziente patologico riporti tra i suoi disturbi e i suoi sintomi la descrizione di un mondo che non gli appartiene, che non sente suo. C’è, nella storia del paziente, l’esperienza di un mondo le cui possibilità di azione sono spesso interpretate e non autentiche. Tutto si chiude, si limita, c’è molte volte un senso di vuoto o di soffocamento.
A cosa serve quindi parlare in psicoterapia?
Ebbene, durante il colloquio si prova a risanare questa frattura identitaria. Sarà quindi compito del terapeuta riconfigurare la storia di vita dell’assistito affinché questi possa riappropriarsi della propria storicità in modo naturale e consapevole, libero da stereotipi e pregiudizi. L’obiettivo è quello di comprendere l’esperienza e liberarsi dell’interpretazione. Insomma, le parole devono essere dei ponti ai fatti e non vivere in un mondo diverso da quello dove naturalmente sono nate e per cui hanno una loro funzione.
In terapia comincia un percorso di disinnesco dell’abitudine interpretativa, a favore di una riabilitazione, che implica nuovi spazi d’azione e quindi a un’automatica apertura al mondo e alla progettualità cosciente verso un futuro sereno.
Cosa rispondere, allora, la prossima volta che ci chiedono “Cosa si fa dallo psicoterapeuta?”. Beh, con un po’ di orgoglio e tanto coraggio (lo psicoterapeuta è il medico dei coraggiosi) diciamo, con il sorriso sulle labbra, che dallo psicoterapeuta… si fa la storia.
A presto,
Dottor Giuseppe Marino