Sonya Caleffi, serial killer italiana che ha colpito tra il 2003 e il 2004, ha un modus operandi quasi unico nel suo genere.
La storia di Sonya Caleffi parla di una serial killer che ha compiuto 5 omicidi accertati e altri 2 tentati. È libera dal 2018.

Scioccante e viscerale, la vicenda di cui mi accingo a scrivere pare la più ardua elaborazione da me condotta: condurrà voi, proprio come mi capitò anzitempo, a profonde riflessioni, discordanti valutazioni e accese diatribe interiori.
Sonya Caleffi: prologo
Sonya Caleffi non è questione di “punti di vista” bensì di analisi, approfondimento, studio e mestiere; parliamo di una serial killer dichiarata perfettamente capace di intendere e volere e contemporaneamente affetta da radicate e documentate patologie.
L’attività criminosa da lei condotta mostra un nesso causale, un filo conduttore rintracciato nei profondi abissi della difettosa autoproclamazione patologica ancor più che nel sadismo o nell’egocentrico edonismo. Un’analisi ponderata, scevra da valutazioni morali e lontana dal coinvolgimento personale funge da calzante clavis adultera al fine di interpretare una così inusitata concatenazione di eventi.
Fatua imago d’imperfetto essere, di donna franta e non voluta, scuotono membra altrui si da trovar pace tra proscenio e remissione. Curatrice di venefica assenza, ti sei fatta demone sussurrando afflati di menzogna.

La storia di Sonya Caleffi
Sonya Caleffi fu donna sfuggente, incerta e disturbata come quei pazienti maledetti da una salute negata.
Nacque nel 1970 a Como, figlia unica di un rappresentante girovago e una casalinga. Rimanendo in constante compagnia della madre, ne ascoltava la deprimente, ricorrente nenia:
“io che ci sto a fare al mondo? Voglio morire”.
La giovane si affacciò a una pervia fase adolescenziale manifestando precocemente un pervasivo senso di disagio e inadeguatezza: molteplici fattori scateneranno stati di così profonda depressione e anoressia da renderla un mucchio d’ossa e pelle. Drammaticamente prosciugata, le verranno imposti l’irrinunciabile obbligo al nutrimento e supporto psichiatrico, terapie tampone platealmente inefficaci.
I primi, gravi disturbi del comportamento si incardinano stabilmente: una sadica e dolorosa autovalutazione continua, un cadenziale, ritmico conteggio ad abaco tra azioni buone o cattive fino ai ricatti emotivi e improbabili tentativi di suicidio, saranno le credenziali psichiatriche di una giovane ragazza. Sonya non si accetta, è invidiosa, cerca continuamente attenzioni, mente in modo compulsivo. Vuole essere osservata, considerata tanto da provocarsi dolore fisico, tanto da inscenare tragedie inesistenti.

La svolta e il baratro
Porose e fatue, le prospettive di Sonya cambiano improvvisamente: il declino fisico della nonna la avvicinerà al contesto dell’assistenza infermieristica; esso divenne ispirazione, distrazione ma soprattutto percorso di studi.
Meticolosa, consegue il diploma all’ospedale Sant’Anna di Como in tempi brevi. Esso fu un paragrafo stampato in su un curriculum precocemente vergato dalla incomprensibile calligrafia di un medico.

Le nozze, il divorzio, il dolore e l’anoressia
Convolò quindi a giuste nozze con il suo primo e unico fidanzato: una relazione che terminò due anni dopo lasciandola sola e nuovamente preda del viscerale disagio. Nulla passa se trascurato, dolore e patimento abbandonano le stanche membra con cura e risveglio.
Manifestazioni patologiche di anoressia e depressione così precoci si instaurano a causa di un insano legame materno: psicologia e psichiatria, medicina occidentale e orientale rintracciano la primigenia fonte d’amore e nutrimento nel seno materno e nell’insano “rapporto” con la sua detentrice l’insorgenza di conseguenze così gravi.
L’anoressia è forma di autodistruzione provocata dall’assenza di quell’amore che l’individuo dovrebbe provare per sé e direttamente generato dall’attenzione e dal riconoscimento dei congiunti più stretti. Amore, che da simulacro innato e lucente tramite di vita, è trasfigurato in buio oblio d’incerta essenza che corrode le instabili falde prosciugandole della stessa linfa di cui si nutrono.

E tutto diventa secco, fragile, smunto.
“Invidiavo chi aveva una amicizia, una storia. Invidiavo chi riusciva, chi aveva successo. Chi sembrava avesse più di me, chi sembrava fosse più capace di me…. Invidiavo chi aveva una vita normale”.
Con la separazione Sonya ripiomba nei disturbi di cui già da tempo è affetta: essi sono là, latenti, dormienti ma vivi e pronti a condurla verso nuove fittizie interpretazioni. Ella affonda, sola, nella vita privata e sul lavoro: assenze ingiustificate, malattie fittizie, abuso di psicofarmaci e scuse mendaci come la morte della madre, lasciano un alone indelebile sulla sua carriera lavorativa fino a capitolare nel licenziamento.
In cura presso un terapista fino al 2000, la Caleffi eviscera ogni male l’affigga. Una lista impietosa e drammatica: disturbo istrionico di personalità, depressione, problema identitario, “difficoltà” di relazione.
Gestisce i rapporti sociali tramite l’adattamento piuttosto che l’autodeterminazione: priva di una bussola emotiva, di una solida autostima e prospettiva lontanamente positiva scivola verso l’atteggiamento istrionico. Ciò coincide con l’ansiosa ricerca di un palco sul quale far da commediante, da guitto o vittima così da attrarre sguardi, considerazioni e compassione perché sedotta dall’insaziabile lusinga della celebrazione o del riflettore affettivo.
Ecco, quindi gli angeli della morte: essi uccidono perché così par loro d’inscenar lo straordinario, d’essere financo protagonisti, d’accompagnarsi a Dio.

Le condizioni sempre più gravi di Sonya Caleffi
“Questo martellamento mentale di dirmi: ripeti finchè non sta male, fin quando non vedi che succede qualcosa. E mi prendeva anche una sorta di ansia nel fare le cose più velocemente”.
Le condizioni della giovane donna sono destinate ad aggravarsi progressivamente: patologie pervasive condizionano in modo determinante le sue azioni portandola a raccattare attenzioni tramite atti estremi. Ne sono plateali simboli il volontario schianto in auto occorso nel 2002 e ancora, di lì a poco, le ferite al braccio e alle tempie autoinflitte.
“Quella sera era mia intenzione farmi del male, non so per quale ragione volessi deliberatamente farmi del male”.
Sostiene di volere unicamente dormire, lavora in corsia ma si ferma e rinchiude in casa per mesi. Ulteriore conseguenza di quanto già ampiamente descritto si può riconoscere nell’ultimo, predittivo atto compiuto da lei stessa nel settembre 2004.

il modus operandi della serial killer Sonya Caleffi
Dopo un lungo periodo di assenza torna all’ospedale Manzoni di Lecco, impugna una siringa e si inietta aria nelle vene; il foro è però sottocute e non genera ripercussioni. Ripeterà la medesima performance su cinque degenti ficcando ben altre quantità d’aria fino ad estirparne l’ultimo afflato vitale: delinea inconsciamente e anticipatamente il modus operandi di una serial killer, la quale riservò il primo tentativo proprio per se stessa.
Como e Lecco fanno da scenografia all’agire di una donna i cui passi rimbombano in templi di patimento e speranza, d’inizio e fine.
La dove una finestra grigiastra separa gli astanti inquieti da passeggiate al lago e panorami belle epoque, uomini e donne s’arrovellano a scacciar tremebonde tremarelle, d’abbandonarsi ad ascosa fidanza. Il nosocomio è regno di timori e solitudine, nascita e rinascita, certezza d’un fluire di cui non siamo sovrani; luoghi di “restauro” che sorgono, nella Lombardia settentrionale, tra ville neoclassiche ricche di eleganza tutta italiana.
Como, sfarzosa e a portata d’uomo dove arte e natura intrallazzano sguardi d’intesa profonda; Lecco e l’aria frizzante di montagna che qua e là s’avverte così come le voci di Renzo e Lucia e il borbottar di Don Abbondio. Fausti e tradizione, storia ed architettura s’alternano a inconsci pistilli di paura persi lungo i tragitti dell’infermiera.

8 novembre 2004, ospedale Manzoni di Lecco
Maria Cristina è un’anziana arzilla e in salute di 99 anni, ha visto il mondo quanto basta da saperlo dipingere con tratti d’inchiostro. Entrambe le guerre, un’Italia caduta, uomini folli spararsi urlando motti a loro estranei e rumori di picconi abbattere il “muro”; vide giovani perdersi in così tanti amori da ritrovarsi come ebeti alla luce del tramonto. O forse ascoltò il semplice dolce sobbollire del sugo in cucina mentre il nipotino sospirava addormentato.
Si trova al Manzoni per una lieve bronchite ma per accertamenti viene trasferita in medicina uno, il reparto di Sonya: alle 14 l’infermiera entra nella sua camera impugnando una grossa siringa. Magrolina e taciturna, le hanno attribuito un soprannome dovuto alle usuali morti in sua presenza:
“è un emergenza, ora arriva il medico”
e invita la figlia ad uscire quindi imbottisce Maria Cristina di quatto o cinque “dosi” d’aria molto rapide, cautelandosi che la siringa sia ben piena. Si ferma solo quando la paziente rantola. A passi lenti, il camice sporco di sangue, annuncia la tragedia.

L’accadimento solleva un plausibile sospetto, il sibilo del dubbio rimbomba questuante nella fredda stanza macchiata del sangue di Maria Cristina:
È l’ennesima morte imprevista
Altro inaspettato decesso avvenuto laddove Sonya s’aggiri.
Un faretto al neon spara deciso su di lei: l’esame autoptico viene filmato e proprio mentre l’obiettivo zooma sul cuore, esso emette un copioso gorgoglio simile a un lesto sobbollire, certa prova della presenza di aria. Fuoriuscita di bolle aeree da embolia gassosa indotta: poche bolle d’aria non fanno nulla, possono scappare a una mano profana, ma la tracotante quantità rilevata ha interrotto il transito ematico. La bolla d’aria risalì, violenta, il tragitto venoso diretta al cuore trovando presso l’atrio un innaturale nicchia in cui rifugiarsi, ostruendo così il naturale fluire del rosso succo; un tappo che provocò l’arresto cardiaco, causa della morte.

Le indagini sulle curiosi morti impreviste e inaspettate
Le indagini scheggiano: l’abitazione di Sonya è presa d’assalto, essa è regno di confusione e degrado.
Durante la perquisizione i Carabinieri si trovano incastrati tra pile di libri in precario equilibrio, mucchi d’abiti e mobili alla rinfusa; tre lettiere per gatti spiccano in evidenza in cucina ammorbando l’aria di un fetore inconfondibile. Alcuni manuali attraggono subito l’attenzione delle forze dell’ordine: Fabiola Le Clercq e i suoi devastanti reportage sulla anoressia, libri e libercoli sulla morte. Dozzine.
L’ossessione per la morte trapela dalle sottolineature e dall’usura degli scritti: un foglietto sbuca da un miscuglio affastellato di ammennicoli di varia natura. Riporta nomi di pazienti, numeri che corrispondono a letti d’ospedale assegnati alla Caleffi, commenti vari; altri foglietti riportano patologie e cure degli stessi, vergate da croci e affiancate al macabro inciso “ella fu”.
Anoressia e morte trafiggono la quotidianità dell’indagata: sono il carillon della buonanotte, la sveglia del buongiorno, le letture nei momenti liberi. Omaggio della depressione, la morte l’attrae e concupisce.

14 dicembre 2004
Il 14 dicembre 2004 viene portata al comando di Polizia di Lecco.
Nega inizialmente ogni coinvolgimento ma passati dieci minuti confessa, senza incertezze, di aver inoculato aria con una siringa da 50 cc a pazienti in cinque casi differenti, provocandone la morte. In altri due casi tentò la medesima procedura ma senza conseguenze mortali
“Io sottoscritta, Sonya Caleffi, ho attuato manovre infermieristiche su pazienti gravi tali da peggiorare le condizioni degli stessi. Ho iniettato circa 40/50 cc. d’aria attraverso l’ago permanente. Tali manovre sono state eseguite nel momento in cui mi trovavo sola con il paziente. Coscientemente ricordo di aver attuato tali manovre per causare il peggioramento in cinque casi. Premetto che non è stata mia intenzione cagionare la morte di alcun paziente, ma solo di rendere le condizioni peggiori di quelle che erano ma non sono assolutamente in grado di spiegare a me stessa le ragioni di queste mia azioni…..Chiedo umilmente perdono ai familiari, collegi, superiori e a tutta l’azienda ospedaliera di Lecco”.
Una liberazione.

Sonya Caleffi è un angelo della morte.
Quella infermiera secca secca ha ucciso cinque persone.
La condotta della donna apre incresciosi interrogativi e indagini si allargano alle altre strutture in cui prestò servizio.
Si parla di otto casi simili, tutti deceduti per arresto cardiaco o per cause compatibili con il modus operandi della Caleffi ma le autopsie sui cadaveri riesumati non rivelano nulla di sconcertante. Sonya non ha commesso altri omicidi.
Nel frattempo, è detenuta e piantonata al quarto piano dell’ospedale Sant’Anna di Como: una detenzione che sa di contrappasso, da salvatrice a evanescente dannata. Scarpe senza lacci, lenzuola di carta, posate di plastica, insomma tutte quelle accortezze necessarie per chi è a rischio suicidio.
Un’Italia brulicante, arrabbiata e sconcertata chiede una condanna esemplare. Questa donna ha usato il camice quale abito da scena di una tragedia in cui lei stessa fu regista e autrice. Gli omicidi si incardinano sul perno del disturbo istrionico e sono agiti allo scopo di attirare l’attenzione: giocoliera, usò esseri umani come fantocci gonfiati.

Il processo e la perizia psichiatrica
Al processo è quasi irriconoscibile: ingrassata, turgida per gli psicofarmaci, esce dalla camionetta e si avvia costretta da fredde manette metalliche.
Il Pubblico Ministero in primo grado richiede 30 anni con rito abbreviato, le famiglie 3,5 milioni di euro come risarcimento. Le sorti del procedimento sono affidate alle perizie: incaricato sarà l’esimio dottor Ugo Fornari il quale metterà in luce una situazione psichiatrica in parte già nota: nonostante i complessi disturbi di personalità, ella è perfettamente in grado di intendere e volete. Una sentenza più mite si avrebbe nel caso venisse riconosciuta come affetta da Sindrome di Munchausen per procura: dobbiamo qui addentrarci nelle strette spire della patologia mentale e confrontarci con una vera e propria malattia che si manifesta come variante della Sindrome di Munchausen.
Quest’ultima porta chi ne è affetto alla menzogna patologica, un Pinocchio senza remore limitatamente a fatti che riguardino il proprio stato di salute. La variante “per procura” invece affligge genitori o tutori spingendoli ad arrecare danno fisico alla prole per farla credere malata ed attirare su di sè l’attenzione: eventualità similari, sebbene non speculari, a quanto messo in atto da Sonya.

L’imputazione di Sonya Caleffi
Omicidio pluriaggravato, l’imputazione di cui è accusata Sonya Caleffi, prevede come pena massima l’ergastolo ma la corte d’assise la condanna nel 2007 a 20 anni nonostante il giudice parli di omicidi pianificati, lucidi, coerenti, e programmati. I 20 anni della condanna comprendono inoltre i due tentati omicidi
Confessioni, collaborazione e disponibilità della condannata fungono da attenuanti: è inoltre riconosciuta come affetta dalla sindrome di Munchausen per procura. La procura tenta inutilmente di impugnare tentando la strada della premeditazione ma la sentenza di primo grado è confermata. Alla lettura della sentenza la donna avrà una crisi di pianto, durante la riepilogazione degli episodi omicidiari paleserà forte sofferenza interiore così come in molti frangenti dibattimentali.
Una sentenza certamente mite rinchiude Sonya nel carcere a San Vittore fino al 2018.
Oggi è libera.

Sonya Caleffi oggi
Come comprensibile dagli accadimenti messi in luce è facile intendere le prime righe del mio scritto.
Fronteggiare un caso così controverso, pur da una comoda scrivania, apre imponderabili questioni etiche e morali, intrappola il criminologo tra il borbottio interiore della condanna per il reato e l’illuminata accettazione delle attenuanti, del vissuto, delle diagnosi. Lascio chiudere questo crudo episodio realtà nostrana alle stesse dichiarazioni della donna che ne è l’artefice ma non protagonista. Essa resta la vittima, l’umana essenza strappata dal corpo e dall’affetto delle famiglie: Maria Cristina, Biagio La Rosa, Teresa Lietti, Ferdinando Negri, Elisa Colomba Riva
“Chiedo scusa e perdono per quanto accaduto, vorrei avere occasione di affrontare una nuova vita. Devo ringraziare per essere in carcere perché li ho assistenza medica. Mi guardo indietro e non mi riconosco più nella persona che ero una volta, ora mi sento più serena ed equilibrata”. Intervistata nuovamente, ospite del programma di Franca Leosini affermerà “non sono nessuno per decidere della vita degli altri e invece io l’ho fatto”.

Conclusione all’articolo su Sonya Caleffi
Gli angeli della morte colpiscono prevalentemente per motivazioni narcisistiche: hanno la sensazione di mettere in atto qualcosa di straordinario, essere al centro dell’attenzione, sentirsi Dio o identificarsi in esso. Agiscono in ospedali o case di cura per anziani prediligendo vittime inermi o incapaci di opporsi, ricoverate in tali strutture.
Il particolare contesto, la ricorrente anzianità di bersagli e il ruolo dell’omicida rendono particolarmente difficile identificarne gli autori, i quali arrivano a collezionare come nel caso di Harold Shipman, il “dottor morte”, fino a 508 vittime.
Dottor Mattia Curti, criminologo
Se ti sei incuriosito durante questa lettura, ti consiglio di seguire la mia rubrica “Monografie Seriali” dove parlo di Serial Killer Italiani.
Qui di seguito ne trovi alcuni